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Farfalle interiori e gusci di crisalide

L’altro giorno, mentre andavo al Riviera International Film Festival di Sestri Levante con la brigata di Coccodè, si parlava della scuola Holden e del mio racconto Editto B., comparso su una raccolta dal titolo 404 – fantascienza non convenzionale.

Ecco, in questi giorni di bufera politica che si è abbattuta come un prevedibilissimo fulmine a ciel sereno sulla Liguria, questo mio racconto diventa attualissimo. Come dire, distopico ma non troppo.

Tutto è in vendita, tutto diventa merce di scambio. Anche la dignità, anche la libertà (soprattutto la libertà), anche la bellezza.

Giusto in queste settimane, mi sto interrogando molto su alcuni aspetti di questo mondo che, anche se non lo capisci, ti mangia dentro e lascia solo il guscio fuori. Che può essere bellissimo, come quello dei tanti influencer che brillano su Instagram, ma che poi, spesso, altro non è che un’immagine bidimensionale per le masse.
Io non farò nomi ma, giusto giusto al RIFF, ho assistito alla desolazione di una di queste starlette bionde e vuote come la crisalide abbandonata dalla propria farfalla interiore.

Un po’ come cantano gli Zen Circus in VIVA:

E gli altri siamo noi

E gli altri siamo tutti

E proprio questo mi spaventa

Siamo diventati brutti

Viva- Zen Circus

Questo, assieme a tante altre piccole epifanie, mi hanno portato ad accorgermi, con un po’ di terrore e angoscia, che sto perdendo la capacità di scrivere. Di andare a fondo, di guardare oltre le cose. Leggo poco e passo troppo tempo a scrollare un contenitore pieno di cazzate che, più che di corrente, sembra alimentarsi delle mie energie.

Nulla di nuovo, è un problema di tutti.

Solo che io la mia farfalla interiore non la voglio perdere, ecco tutto.

Il racconto ve lo lascio qua (se invece voleste comprare la raccolta, la trovate su amazon a questo link).

Editto B.

di Alberto Della Rossa

Li abbiamo accolti come i figli che abbiamo sempre desiderato, abbiamo pianto lacrime di gioia quando hanno parlato ai nostri cuori.
Spigliati, con la lingua rapida e l’intelletto veloce. Non c’era alcun “altro”, solo persone come noi.
Portavano cellulari come i nostri, leggevano i nostri stessi giornali, i nostri libri preferiti. Cantavano le nostre canzoni, conoscevano i nostri idoli, ridevano delle nostre battute.
Abbiamo creduto fossero come noi. 
E invece no. Erano più intelligenti.
Sono il successo di Mister B.
E ora sono i nostri padroni.

Roma, 202*, in una qualche stanza dei bottoni.

Vitaliano si accese una sigaretta e si allungò sullo schienale di pelle della poltrona. L’aria condizionata sparata al massimo turbava il ricciolo di fumo che si alzava dalla brace. Strinse gli occhi e fissò una voluta nata perfetta spezzarsi sotto l’impietoso flusso di aria fredda.
Aveva iniziato per quello, tanti anni prima. Per inseguire la bellezza fugace e trasparente di un filo azzurro. Aveva continuato per vizio, e ora si quasi si faceva ammazzare pur di procurarsi delle bionde vere. 
La porta si aprì. Il Garante del Popolo entrò, tronfio come un tacchino. Una stagista senza contratto e senza futuro, fasciata in un tailleurino da pochi spicci, lo inseguiva come un sexy anatroccolo.
«Ancora con quelle porcherie? Ti fanno venire il cancro», berciò il Garante.
Vitaliano alzò un sopracciglio, quindi aspirò una boccata profonda. Trattenne il fumo acre nei polmoni per un po’, i lineamenti distesi in un’espressione beata.
«Crede che me ne importi qualcosa, Bordighera? Queste sigarette sono l’ultimo piacere che mi rimane.»
«Puzzano. Cosa sono?»
«MS. Le ultime che si trovano in circolazione. D’altronde, niente più Stato, niente più sigarette da Monopolio, no?»
«Potresti svapare, come le persone civili.»
«Se svapare lo ritiene una cosa civile.»
«A volte, Vitaliano, mi chiedo se tu sia davvero un amico del Popolo.»
Vitaliano sospirò. 
«Sì, lo sono. Sono qui, dopotutto.»
«Ecco, appunto. Ti ho chiamato per una questione importante e delicata. Betta, fai partire il filmato.»
La stagista sfiorò un telecomando con conturbante leggerezza. Non aveva dubbi sul perché Bordighera la tenesse con sé.
Una serie di immagini sfilarono sul muro. Sempre lo stesso caos che dal giorno del Grande Rifiuto correva per le strade. 
Niente più tasse, niente più padroni, il Popolo Sovrano, urlavano i cortei. Per la prima volta, il Popolo intero era rimasto unito. Nessuno aveva più pagato un centesimo di tasse, e nel giro di pochi mesi lo Stato era caduto come un leviatano colpito a morte.
«E quindi?» chiese Vitaliano «non vedo nulla di strano. È ciò che il Popolo voleva. Libertà.»
«Ma non quello di cui ha bisogno.» replicò Bordighera.
«Adesso è lei che parla come un nemico del Popolo.»
Bordighera strizzò gli occhi.
«Sono il Garante del Popolo. Espressione stessa dell’equanimità di tutti i diritti.»
«Mi sembra che là fuori ognuno faccia come gli pare. I diritti sono rispettati.»
«Vedi, Vitaliano, tu ti credi molto intelligente. Un professorone. Di sicuro sai il fatto tuo, ma voglio mostrarti una cosa. Aprirti gli occhi. Betta, la valigetta.»
Betta si chinò in avanti in una perfetta postura da social e porse la ventiquattrore con un sorriso perfetto.
Bordighera la aprì e ne guardò il contenuto. 
«Per te di colore è la libertà?»
Vitaliano spense la sigaretta.
«Non saprei. Me lo dica lei.»
«Ecco, un’altra cosa che non sai. La risposta è scomoda, ma la libertà è bianca. non in senso razziale, non fraintendermi. La libertà è l’unione di tutti i colori, di tutti i pensieri, di tutti i credi. Bianca. Pura.»
Vitaliano annuì. 
«Ed è quello che il Nuovo Governo del Popolo ha cercato di ottenere con il Grande Referendum.» proseguì Bordighera.
«La buffonata?»
«Come ti permetti?»
«Un referendum a risposta unica non è un referendum.»
«Eccolo, il professorone. Perché era chiara la volontà del Popolo: LIBERTÀ. Il Grande Referendum è una presa di coscienza.»
La poltrona in pelle non sembrava più così confortevole. Si accomodò meglio, accese un’altra sigaretta.
«Ora il problema è un altro, e ho avuto una grande intuizione guardando giocare i miei figli. Guarda!»
Il Garante tirò fuori dalla valigetta dei tubetti di tempera colorata. Rossa, Verde, Gialla. C’era un tubetto rosa shocking, uno nero, un altro ancora bianco. 
«Ne ho preso uno per ogni volontà. Forse ne manca qualcuna, ma non credo faccia molta differenza.»
Spremette i tubetti sul tavolo in tanti piccoli riccioli di colore.
Poi, con sguardo trionfante, affondò un dito e mischiò tutto in una pappa dal colore immondo.
«Lo vedi?»
«Cosa dovrei vedere, Bordighera?»
«Questa non ha il colore della libertà. Questa è… MERDA!»
Vitaliano si passò la mano sulla fronte. Non credeva ai suoi occhi. Iniziava quasi a pentirsi della sua flessibilità, la stessa che lo rendeva così richiesto per le operazioni sotto copertura.
«Ma non mi dica.» sbottò sarcastico.
«Vitaliano, non fare il galletto. Ricordati che qua il capo sono io.»
Serrò la mascella e trattenne il commento tra i denti.
«Bene, Bordighera, tagliamo corto. Cosa vuole da me?»
«Cosa vuole il Popolo, Vitaliano. Cosa vuole il Popolo» e sollevò il dito sporco di tempera marroncina.
«…il Popolo, giusto» ripetè, calcando la p quel tanto che bastava.
«Così non può andare. Il Popolo vuole la libertà, non padroni. Deve essere indirizzato affinché faccia le scelte giuste. Per uscire dal caos, per trasformare l’anarchia ci servono le persone giuste al posto giusto.»
«Suggerisce per caso un colpo di Stato?»
Bordighera divenne paonazzo. Si guardò attorno come un bovino al macello, con gli stessi occhi terrorizzati e folli.
«Giammai! Io sono il Garante del Popolo, ha capito? Io PROTEGGO il Popolo!» e afferrò la bottiglietta d’acqua sul tavolo. «No Vitaliano, io so che certe decisioni vanno prese, ma sempre nel bene comune. Noi abbiamo bisogno di qualcuno che sappia parlare la stessa lingua della gente, che sappia farsi ascoltare. Qualcuno dalle belle parole, qualcuno che ispiri le persone a essere migliori.»
Bordighera portò la bottiglietta alle labbra e la vuotò, guardando negli angoli. Vitaliano si chiese quante orecchie ci fossero in quella stanza.
«Abbiamo un piano» disse a voce bassa il Garante. «Il Popolo, ha un piano», si affrettò ad aggiungere.
Frugò nella ventiquattrore e ne tirò fuori una cartelletta con sopra scritto Editto B. in lettere cubitali.
«Qua ci sono tutte le informazioni che ti servono. Non deluderci.»
Vitaliano la prese e la girò tra le mani. Uno sbaffo di tempera marrone macchiava il dorso.
Alzò gli occhi verso Bordighera. Provò qualcosa di molto vicino alla repulsione fisica per quell’uomo medio nel suo completo blu. 
«Cosa ci guadagno?» chiese infine.
Bordighera sorrise furbo. 
«La libertà del Popolo, amico mio.»

Torino, una settimana dopo.

Vitaliano aspettava nell’androne rivestito di marmo. Il completo nero lo faceva sentire uno scarafaggio sul ripiano di una cucina immacolata.
Era arrivato su una corriera scassata che percorreva quello che rimaneva della A1. Torino vomitava smog sui semafori spenti e sulle strade con l’asfalto in pezzi. Il sole agostano si nascondeva dietro la cortina venefica e arrostiva i poveracci nei palazzi risorgimentali che senza corrente per l’aria condizionata si erano trasformati in forni.
Dopo un paio d’anni di Libertà, stare freschi era un lusso che si potevano permettere in pochi. La corrente rimasta era appena sufficiente per caricare gli smartphone e restare connessi alla grande piazza virtuale da in cui era partito tutto. Il Popolo si era spogliato di qualsiasi cosa, tranne che dei media.
Il ragazzotto biondo vestito di lino bianco che l’aveva accolto rientrò nella stanza.
«Il Maestro vi attende.» disse, facendo cenno di seguirlo.
Il cortile interno era lussureggiante. Rampicanti correvano per le colonne e grossi fiori purpurei ricadevano pesanti sulle foglie verde smeraldo. Da qualche parte un usignolo cantava.
Al centro c’era una fontana di travertino. Lui era lì, seduto sul bordo, intento a leggere un libro ad alta voce, avvolto in un completo di lino bianco, la camicia sbottonata sul petto abbronzato, i piedi scalzi e i capelli argentei spettinati in maniera perfetta, attorniato da alcuni ragazzi che lo ascoltavano estasiati.
Concluse la frase e posò il libro sulle gambe con aria serafica, gli occhi chiusi e i lineamenti distesi. I ragazzi lo imitarono. 
Vitaliano si guardò intorno e si spostò all’ombra senza fiatare. 
Passò qualche minuto, poi l’uomo si aprì in un sorriso soddisfatto.
«Vedete, mie promesse» disse indicando Vitaliano ai ragazzi «questo è un uomo che sa aspettare. Che conosce il suo tempo, che non teme il confronto, che sa qual è il suo posto. Lei ha mai letto la Recherche, signor?»
«Vitaliano. No, non l’ho letta. Proust, vero?»
«Un vero peccato. Sì, Proust. Bene, mie promesse. Andate a cercare il vostro tempo e la vostra storia.»
I ragazzi si alzarono e scomparirono nell’ombra delle aule che davano sul cortile interno con un brusio, lasciando dietro di loro un senso d’attesa incompiuta.
Il Maestro doveva avere una settantina d’anni. Era giovanile, snello. Forse, per una donna, poteva essere ancora un bell’uomo, di sicuro lo era stato. 
Vitaliano lo scrutò da capo a piedi. Dentro a quella splendida conchiglia percepiva una vertigine, un’assenza furba che scintillava negli occhi castani. Incontrare gente pericolosa era il suo mestiere, e l’uomo vestito di lino era molto, molto pericoloso.
«Lei dev’essere Mister B.» e tese la mano. «Vive in un bel posto. Molto diverso dalle strade di Torino.»
«Molto diverso dalle strade del mondo», lo corresse Mister B. «Viviamo in tempi davvero particolari, non crede?»
«Io non credo nulla. Ma sono qui proprio per dare il mio contributo. Immagino sapesse del mio arrivo.»
«Certo, l’accordo con il Nuovo Governo del Popolo. Preferisco tuttavia pensare a una missione. Lei, Vitaliano, ha un nome importante. Anzi, lei deve essere importante, se è stato mandato fin qua da me. Conosce i dettagli del progetto?»
Vitaliano annuì. «Li ho letti, sì.»
«E cosa ne pensa?»
«Mi lasciano perplesso.»
«Per questo lei è qui, ora. Il mondo sta veramente cambiando. E il culto del bello è tutto ciò che ci è rimasto per dare uno scrollone al mondo, per cambiarlo senza violenza ma con violenza, diciamo. Io credo davvero che mi sia stato dato il privilegio di vivere una transizione del mondo di quelle feroci, spettacolari, luminose. Ha letto il mio ultimo romanzo?»
«Non ho avuto il piacere, no. Ma l’ho visto sugli scaffali delle librerie. Quelle che rimangono, perlomeno.»
«Quelle che rimangono, ha detto bene. Noi viviamo un conflitto epocale, come quando è arrivato l’illuminismo, poi il duello con il romanticismo, la rivoluzione industriale… sono scossoni pazzeschi, di carattere culturale, mentale, pratico.»
«La gente muore di fame.»
«La gente muore per la libertà» puntualizzò Mister B. «ma non è necessario. Cosa vede attorno a sé, Vitaliano?»
«Paura. Rabbia. Ferocia. Siamo come cani che si azzuffano per un morso di carne marcia.»
«Fame! Ecco, io vedo un’opportunità! La stagione delle grandi identità, delle grandi istituzioni, è finita. È un mondo che è rotolato via da tempo e noi tutti continuavamo a osservare il galateo di una cena senza più commensali. Il vantaggio di vivere in un’epoca simile è che tutto ciò che era rigido, petroso, marmoreo, stabile, apparentemente immutabile ora ha un momento di debolezza, di fragilità, come se saltasse un battito del cuore. E questo mancamento, che per molti è un terrore, per me è una feritoia per infilare i miei desideri nel tessuto del mondo.»
«I suoi desideri?»
Mister B. sorrise sornione. «Mi perdoni. I nostri. Del Popolo. E sa come faremo?»
Vitaliano attese. Aveva capito che quella conversazione era in realtà un monologo.
«La bellezza salverà il mondo. Lo disse il grande Dostoevsky, e noi saremo gli strumenti della sua grande profezia. Abbatteremo i muri che dividono, uniremo con la bellezza della cultura e delle parole. Questo luogo è il Linceo in cui plasmare i condottieri intellettuali del mondo a venire.»
Il silenzio calò sul cortile, mentre il peso di quelle parole ancora rotolava sull’acciottolato.
Vitaliano rabbrividì. 
In un angolo, un ragazzo fissava Mister B. in tralice. 
Aveva trascritto ogni singola parola.

Colli di Roma, primavera.

Il sole tramontava sui colli romani in fiammate color salmone che a oriente già stingevano nello stesso lilla del glicine che copriva il piccolo pergolato.
La radio gracchiava un podcast sulla Carrà e sulla sua grandezza. Vitaliano sorrise. Ricordava quella prima puntata di Milleluci, lo schermo in bianco e nero e Gorni Kramer che sorrideva sornione in mezzo a Mina e alla Carrà. Lui aveva sì e no dieci anni e si era perdutamente innamorato di quel sorriso e di quel caschetto biondo.
Si allungò sul tavolino coperto da una tovaglia di plastica e si versò un po’ di vino nel bicchiere.
Poteva andargli peggio. Gli toccavano pochi giorni al mese di lavori socialmente belli, anche se qualche volta proprio belli non erano. Era un privilegiato, lo sapeva.
La sigla di chiusura del podcast si esaurì nel canto serale delle cicale, prima di essere sostituita dalle note sconclusionate di Allevi o di qualche altro Alfiere della Bellezza.
Note di regime prima della propaganda.
Una voce maschile, giovane, suadente, impeccabile nella sua imperfetta e calcolata inflessione torinese. Vitaliano se le immaginava, quelle labbra, il velo di barba bionda, gli stessi occhi azzurri che aveva incrociato per un attimo in quel cortile interno, la scellerata mattina di agosto in cui aveva stretto la mano al diavolo.
«Cittadino della Bellezza, sorridi. Come i bambini lasciamo orme sulla sabbia, precise, ordinate, immagine di un istante perfetto. Domattina ti alzerai e di questa grande spiaggia non ci sarà più nulla, un segno qualsiasi, nulla. Il mare cancella, la marea nasconde ed è come se di qua non fosse mai passato nessuno, ma la Bellezza rimane. Ora pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Non sono infiniti, loro. Ma dentro a quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare. Noi siamo le note dell’immensa sinfonia della Bellezza.»
I condottieri intellettuali di Mister B. sussurravano parole vuote che ogni giorno si facevano strada nel nulla assoluto di un popolo che cerca la libertà ma non sa stare senza un padrone. Semi di fiori tossici, belli e letali che distoglievano dalla brutale realtà di una dittatura unica al mondo. 
La dittatura della Bellezza.
«Vitaliano!»
Oltre la cancellata, c’era un uomo. Si aggrappava alle sbarre con mani tremanti, i vestiti laceri e sporchi, gli occhi dell’animale braccato. A momenti non lo riconosceva.
«Vitaliano! Sono io, Matteo!» 
Vitaliano si avvicinò. Bordighera allungò la mano e gli afferrò una manica.
«Aiutami!»
La voce era poco più di un sussurro. Si guardava intorno disperato.
Vitaliano strinse gli occhi. Non rimaneva nulla della persona arrogante e boriosa di un tempo. Sotto le guance svuotate e flosce rimaneva solo la paura e la tormentata volontà di vivere dei cani randagi che rovistano nella spazzatura in cerca di un boccone che li faccia vivere un giorno ancora o li uccida la notte stessa.
«I bellisti mi stanno addosso. Devi nascondermi, ti prego! Devi!»
Vitaliano fece un passo indietro.
Scosse la testa piano.
«No. Non ti devo più nulla.»
La disperazione mutò in rabbia. Bordighera colpì la cancellata.
«Maledetto! Hai solo cambiato padrone, cane schifoso!»
Vitaliano rimase in silenzio. Dalla boscaglia arrivavano delle voci.
«La Libertà, Bordighera, ricordi? La Libertà sopra ogni cosa. E ho scoperto quant’è bello essere liberi.»
«Ma non lo sei! Non lo è nessuno, con questi fanatici!»
Vitaliano sorrise.
«Non lo siamo mai stati. Tu dovresti saperlo più di chiunque altro. Li hai messi tu al potere.»
«Io volevo solo che le persone fossero libere! Io sono il Garante del Popolo».
Le voci erano sempre più vicine.
«Tu non sei diverso da loro. Volevi solo di più. Ma è così che funzionava per voi, no? La libertà personale è inviolabile, anche quando va a scapito degli altri, vero?»
«Sei un traditore!»
«No, Bordighera. Non lo sono. Non sono mai stato dei vostri. Sono solo un servo. Faccio ciò che mi riesce meglio.»
«E cosa, allora, cosa?»
«Sopravvivere.»
Dalle frasche uscirono alcuni uomini senza divisa. Ognuno di loro portava al braccio una fascia colorata con una B nera stampata.
I manganelli si alzarono e si abbassarono più volte. Colpivano secchi le gambe, le braccia, la schiena.
Bordighera si proteggeva il volto, singhiozzando, raggomitolato in posizione fetale.
Una ragazza colpiva più forte degli altri. 
Uno dei bellisti alzò la mano. I manganelli si fermarono.
Uno a uno, tirarono fuori un libro. Vitaliano riconobbe l’autore.
In piedi attorno a Bordighera, ammiravano il loro lavoro.
L’uomo aprì il libro e lesse un passo.
«Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.»
Afferrarono Bordighera sotto le braccia e lo trascinarono via.
Betta incrociò lo sguardo con Vitaliano. Si riconobbero in silenzio.
Vitaliano estrasse una sigaretta rollata da un vecchio pacchetto stropicciato di MS. Le originali erano finite da un po’. 
Non eravate belle, ma eravate buone, sospirò.
Tirò una boccata di fumo acre, la trattenne nei polmoni come si trattengono i ricordi. La brezza serale spezzò il ricciolo di fumo bluastro. Sorrise.
Anche quella sera non avrebbe trovato la voluta perfetta.

Questione di sorrisi

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Sono dieci giorni che giro attorno all’idea di scrivere quello che mi passa per la testa. Alla fine proprio ieri, dopo aver ricevuto un’altra pessima notizia, ho deciso semplicemente di sedermi e cominciare. Quindi no, non è la solita dissertazione polemica appoggiata su qualche idea sbilenca. È più uno sfogo, a cavallo tra tristezza e speranza, perché non sono certo le parole a riportare in vita le persone, ma sono le parole a tenere in vita i ricordi e i sogni.

Ci sono settimane che andrebbero cancellate dalla faccia della terra, in cui il fato si sveglia con i coglioni giratissimi e decide di amministrare sberle a destra e a manca.

E la gente muore, soprattutto quando non dovrebbe. Soprattutto chi non se lo merita affatto.

Magari per motivi diversi, agli angoli opposti della terra e senza nemmeno sapere della reciproca esistenza, ma in mezzo ci sei tu, che li conosci entrambi e nonostante la distanza senti dita ossute batterti sulla spalla e una voce pesante come pietra sussurrare “Hai visto? Io prendo chi mi pare.”

Così, dieci giorni fa, è passata a prendersi Yam.

Yam è stata la prima persona con la quale io e Arianna abbiamo parlato appena atterrati a Kathmandu. Era ottobre 2017, il nostro primo viaggio in Nepal. Era tutto nuovo, eravamo eccitatissimi e decisamente spaesati. Poi lo vedemmo: portava con sé un cartello con su scritto “Arianna e Alberto” e aveva un sorriso immenso sul volto.
Chi conosce Yam sa che il sorriso era la sua espressione base da vestire con i sentimenti del momento. Aperto, beffardo, sincero e perché no, a volte anche un po’ strafottente, poco importa.
Yam sorrideva.
Con nostro stupore infinito si rivolse a noi in un italiano sorprendentemente buono e ci accompagnò alla macchina.
Io mi avvicinai alla portiera di destra e feci per aprire. Ed eccola lì, rapida come il morso di un cobra, la battuta fulminante: “Guidi tu?”
Guardai attraverso il finestrino e dentro vidi il volante. In Nepal – come molti dei paesi venuti in contatto con il Commonwealth – si guida a sinistra. Scoppiammo tutti e tre a ridere.
Ecco, dovrei tatuarmela, quella battuta. In due sole parole c’era l’insegnamento più importante per chi visita il Nepal: qua le cose sono diverse, qua il cielo e le stelle sono diversi. Eppure c’è posto per tutti.

Ieri invece, poco dopo l’una, arriva un messaggio di mio fratello David.
“Serena è andata.”

Non è una novità, era malata da tanto tempo. Però rimane una notizia di merda, capace di far tornare a galla le ore più buie di quasi tre anni fa, quando ad andarsene fu Alessandra, la moglie di papà.
C’è un filo rosso che unisce Serena e Alessandra: lavoravano assieme, ed è grazie a loro se mio fratello David ha incontrato Valentina, sua moglie.
Era il 27 dicembre del 2016. David mi disse “dai fratè, vieni anche tu. Alessandra ha organizzato un aperitivo con una collega e sua sorella. Credo vogliano cercarmi moglie.”
E ci sono riuscite, cazzo.
Arrivammo al bar e sedute al tavolo c’erano papà, Alessandra, Serena e Valentina.
Ora, chi ci conosce sa che quando io, papà e David siamo nella stessa stanza tendiamo a diventare un po’… frizzantini. Il vecchio, poi, non perde una battuta che sia una.
Serena e Valentina erano tutto uno sgranare d’occhi, il magico trio Della Rossa era in grande spolvero.
Mi ricordo i capelli biondo platino di Valentina e i tentativi disperati di Alessandra di metterci un freno. Impossibile.
Soprattutto ricordo il sorriso di Serena, tra il furbo e il soddisfatto.
Il sorriso di chi già allora la sapeva lunga.

Ecco, due ricordi separati per due persone che non ci sono più. Rimangono i loro sogni, però.

Il sogno di Yam vive nel Planet Bhaktapur, la casa di tutti gli italiani in Nepal, alla quale spero di tornare presto con Arianna, fosse solo per dare una mano.
Il sogno di Serena vive nella figlia di David e Valentina.

A noi, invece, restano i sorrisi.

Sotto cieli stranieri

Ieri sera (o stamattina, visto che era passata la mezzanotte da un po’), ho finito Yellow Birds di Kevin Powers e – come al solito – ho subito cominciato un nuovo libro.

È un piccolo rito per mantenere il ritmo” e ricordarmi che in qualche modo c’è sempre tempo per leggere. Dopotutto è facile, non devo fare altro che pescare dall’infinita pila di libri che tengo sul comodino. A essere difficile è la scelta, visto che non riesco mai a decidere cosa leggere dopo.

Questo giro è stato un po’ più facile del previsto. La copertina dorata di A Lhasa e oltre brillava in mezzo al casino. Fa parte del cofanetto dei diari di viaggio di Giuseppe Tucci, che poi di fondo è l’Indiana Jones de noantri. Archeologo, esploratore, gran paraculo (tanto da riuscire a entrare a Lhasa nel 1948 in quanto iniziato buddista, salvo poi riconvertirsi al cattolicesimo in punto di morte), massone, professore, inviato (cito wikipedia) come membro di una delegazione diplomatica e militare che doveva trattare con i vertici giapponesi l’adesione dell’Italia al Patto Anticomintern, l’alleanza già firmata tra il paese orientale e la Germania nazista in funzione anti-sovietica.

Insomma, apparentemente il nostro Tucci era un personaggio con qualche ombra, tanto che nel 2010 – a seguito di una strada a lui intitolata a Roma – vi fu una levata di scudi da parte della comunità ebraica a causa di una sua ipotetica adesione al Manifesto della Razza del 1938.

Apro una piccola parentesi (quasi un disclaimer): non mi cagate il cazzo per quello che sto per dire, io per primo ho parenti ebrei (il fratello di mio nonno è stato in campo) e amici che vivono a Gerusalemme.

Fatta questa precisazione, ritengo che pensare a Tucci come a un razzista – o anche solo come fascista, pur essendo famoso come l’esploratore del Duce – sia un’idiozia bella e buona. Al di là del fatto che non esiste alcuna firma di Tucci in calce al manifesto, basta leggere i resoconti dei suoi viaggi per rendersi conto di cosa davvero pensasse Tucci dell’uomo e delle culture, tant’è che nel 1937 (prima della guerra) e nel 1947 (tre anni dopo essere epurato dall’Università perché ritenuto compromesso con il regime, salvo essere prosciolto nel 1946 e addirittura messo alla guida dell’IsMEO nel 1947) venne accompagnato in Tibet da Fosco Maraini, antropologo, etnografo, fotografo e scalatore che, pur di non aderire alla Repubblica di Salò, si fa tre anni di campo di prigionia a Nagoya, in Giappone, dove era professore e ricercatore associato alle università di Kyoto e Hokkaido.

Ora, ditemi: nei panni di Maraini (di cui vi consiglio di leggere Case, Amori, Universi e Segreto Tibet), dopo esservi puppati tre anni di campo di prigionia con moglie e figlie piccole, seguireste un fascista in una spedizione in Tibet? A me qualche dubbio viene.

Tucci era molte cose, ma non una cattiva persona: di sicuro ha fatto delle scelte opinabili, ma sempre con l’obiettivo di rincorrere la conoscenza, di esplorare nuovi orizzonti, di sollevare il velo sulla storia delle culture indo-tibetane.

Per concludere non mi resta che ringraziare non solo le Autorità tibetane che furono con me larghe di aiuti e comprensione, ma tutti i tibetani che ho incontrato durante i sette mesi passati nel loro paese: perché tutti hanno gareggiato in gentilezze da riempirmi l’animo di mestizia, quando sul calar dell’autunno ho dovuto riprendere la via del ritorno per tornare in un mondo, che per errore di prospettiva, chiamiamo civile.

Giuseppe Tucci, prefazione di A Lhasa e oltre, diario di viaggio della spedizione in Tibet del 1947

Perché tutto questo pippone su Tucci?

Semplice. Perché lo ammiro, e ammiro tutti quegli uomini che hanno fatto la storia dell’esplorazione del mondo. Ieri sera, leggendo la prefazione, ho realizzato che è solo l’ultimo di una lunga fila di testi che ho letto sul Tibet, sull’India e sul Nepal e che sì, posso definirmi un malato di Asia.

È nato tutto con il piuttosto opinabile ma di certo suggestivo “Il terzo occhio” di Lobsang Rampa, che altro non era che un idraulico del Devon convinto di essere la reincarnazione di un lama tibetano. Il libro è un’evidente opera di fantasia (non spoilero nulla) ma è talmente affascinante da essere indicato da molti tibetologi e orientalisti come uno dei motivi per cui hanno intrapreso gli studi orientali.

“For some it was a fascination with the world Rampa described that had led them to become professional scholars of Tibet.”

Dr. Donald Sewell Lopez Jr., professore emerito in Studi Tibetani dell’università del Michigan, dipartimento di lingue e culture asiatiche.

Avevo sì e no diciott’anni e avevo appena chiuso un periodo monomaniacale di letteratura yddish. Poi trovo in casa Vita di Milarepa (biografia del poeta, mago e mistico della scuola Kagyu), e poi ancora i libri di Alexandra David Neel (Il lama delle cinque saggezze – fuori pubblicazione da un po’ – e Viaggio di una parigina a Lhasa) e infine il già citato Segreto Tibet di Fosco Maraini.

C’ero già dentro con tutte le scarpe, e da allora non è cambiato assolutamente nulla, perché a questi si sono aggiunti i libri di Tucci, di Hopkirk (su cui scriverò un articolo separato) e di tanti altri ancora, senza che mi sia mai riuscito di placare questa sete di Asia che mi ha portato (finora) tre volte a spasso per il Nepal. Ma ancora manca l’India (per bene, intendo, ci sono passato di sfuggita un paio di volte), il Tibet, la Mongolia, tutta la dannatissima via della Seta e potrei andare avanti un altro po’.

E mi chiedo se in qualche modo non fossi destinato a quest’amore, perché sono cresciuto sotto lo sguardo di due maschere Bhairava che mio padre portò con sé dal Nepal, nel 1982.

Purtroppo non rimangono più terre ignote da esplorare, e le scritte hic sunt leones sono state sostituite dai satelliti che arrivano a contare i peli del culo degli stambecchi himalayani o delle antilopi che corrono nella steppa.

Il pensiero che guida la spedizione di Clark nel 1949 (dai, forse c’è una montagna più alta dell’Everest, andiamo a rompere i coglioni agli Ngolok tibetani e già che ci siamo a fare un po’ di spionaggio) è oggi impensabile. Tutto è scoperto, a noi non resta che seguire le orme degli esploratori nelle loro pagine.

E, non appena sarà possibile, prendere un volo e andare di nuovo a dormire sotto cieli stranieri.

Il viaggiatore dei sogni

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Sono due settimane esatte che giro attorno a questo tema e non riesco mai a decidermi. Mi sono chiesto Che faccio, lo scrivo? Passo definitivamente per il lunatico (nel senso più originale del termine, ovvero di “persona che patisce di accessi di pazzia ricorrenti con le fasi lunari”) o mantengo una parvenza di sobrietà?

E alla fine, eccomi qui a parlare di sogni. Di quelli veri, che si fanno di notte, che ti lasciano incantato o con una sottile inquietudine per tutta la giornata. O di incubi, che poi sempre sogni sono.

Il primo incubo di cui ho ricordo risale a quando avevo 3 anni o poco più. Una casa di vetro piena di buio, insetti e pipistrelli, dalla quale non potevo fuggire. Mi svegliai urlando e – se la memoria non m’inganna – corsi nel lettone dei miei. Il primo sogno invece non lo ricordo, forse perché non aveva la stessa carica emotiva.

In generale, sogno tantissimo. Principalmente incubi – al punto che per me non lo sono nemmeno più – ma anche tanti sogni ordinari. Quello che forse non riesce a tutti è viaggiare nel sogno. Lo faccio in maniera abbastanza inconsapevole e ogni poco riesco a regalarmi un sogno lucido.

Quando ne incontri uno, te ne accorgi. Rimangono lì, appiccicati alle pareti del cervello e non se ne vanno più. Sono coloratissimi, sono mistici, sono terribilmente reali e hanno elementi comuni, coerenti a sé stessi e all’insieme. Ma, soprattutto, non sono visioni passive.

In un sogno lucido sei padrone delle tue azioni. In qualche modo la coscienza riesce a intrufolarsi nel mondo onirico, dove non ci sono limiti fisici. Puoi volare. Puoi respirare sott’acqua. Puoi evocare davanti ai tuoi occhi qualsiasi cosa tu possa immaginare.

È “sognare sapendo di stare sognando” e comportarsi di conseguenza.

Dai sogni lucidi ci si risveglia con gli occhi pieni di meraviglia e una profonda nostalgia. A questo fenomeno (che poi è conosciutissimo fin dall’antichità, ma fra poco ci arriviamo) se ne affianca un altro: poco prima di scivolare nel sonno, nel dormiveglia, mi sfiorano ricordi di altri me. Reverie talmente forti da farmi credere di aver rotto il velo, di poter toccare o condividere qualcosa con gli infiniti me di infinite realtà parallele. La scienza li chiama stati ipnagogici, a me sembrano porte sull’infinito.

Eccoci dunque al tema principale: l’onironautica. Fa parte della storia dell’uomo da sempre, e non è roba da fricchettoni hindu (per quanto lo Yoga Nindra e il Milam tibetano collochino la pratica del sogno già qualche secolo prima di Cristo; lo Yoga Nindra è infatti citato negli Upanishads, mentre per il Milam parliamo addirittura di radici nella religione pre-bhuddista Bönpo).

Troviamo il tema del sogno lucido un po’ ovunque, a partire dai Sumeri. Era conosciuto dagli Egizi, dai Greci, dai Romani, per non parlare delle civiltà orientali. Per alcune di queste il sogno era alla base della creazione dell’universo, come negli aborigeni australiani (il loro famosissimo Dreamtime il tempo del sogno – proprio come nell’induismo, in cui Vishnu sogna l’universo in cui viviamo – ha valore cosmogonico).

Di sogni parla Aristotele, e lo stesso doveva esserne abbastanza ossessionato, visto che ne ha scritto parecchio (qui un bell’articolo di Alessandra Quintiliani). Riguardo all’onironautica, nel De Somniis dice «spesso, quando dormiamo, accade qualcosa nella coscienza che ci rende manifesto che quanto a noi si presenterà non è che un sogno».

Non credo sia esistita cultura che abbia camminato su questa terra che non avesse la propria versione.

Potrei andare avanti un po’ con le fonti, quindi mi fermo qui: il sogno lucido è un dato di fatto. Ciò che più mi attrae, però, è la possibilità di viaggiare all’interno di essi e utilizzare questa facoltà per esplorare l’insondabile. Essere un onironauta, per l’appunto. C’è chi usa il sogno per parlare con persone che non ci sono più, chi per fare sesso (davvero, non è una puttanata. La capacità di controllare i sogni ti permette di fare quello che vuoi e – come sempre – l’occasione fa l’uomo ladro. E zozzone, ovviamente), chi per aprire le porte di mondi fantastici.

il 15 marzo scorso, ad esempio, mi sono svegliato con un sorrisone sulle labbra, perché la notte mi aveva regalato un altro pezzo del puzzle. L’ho subito trascritto nel mio diario dei sogni (pratica necessaria per tutti gli onironauti).

Esiste un luogo, nella mia topografia onirica, gestito da un nepalese. È un sotterraneo, di fondo un lungo corridoio a base quadrata. Alle mura oggetti, armi, paramenti e stendardi che raccontano una storia antediluviana di guerre intestine combattute dagli dei. Qua e là ci sono alcuni teschi di questi: forme aliene simili alle piastre dei pesci ossei del devoniano, con creste, corone e bocche enormi irte di centinaia di denti. Per chi ha familiarità con gli aspetti terribili delle divinità indù, non sono difficili da immaginare. Questa sotterranea galleria delle meraviglie è visitata da comitive rumorose di ragazzi annoiati, morbosamente attratti da un unico cancello che si affaccia su una scalinata che scende. Un cartello in caratteri devanagari parla chiaro: lì non si va, là sotto si agita qualcosa. Forse alcuni demoni superstiti, chissà. A nulla valgono le raccomandazioni del custode, regolarmente degli sbruffoncelli scendono e non tornano mai più, inghiottiti dal lucore scarlatto che proviene da un luogo alieno. Rimangono le occasionali urla di terrore, ma anche quelle durano poco. In fondo al giro, vicino all’uscita, tre donne vendono enormi granchi e frutti di mare che aprono al momento e cuociono ancora vivi in padelloni ricolmi di olio schiumante. La visita termina, salgo le scale che mi portano all’esterno ed esco alla luce di un sole abbacinante su una pietraia senza fine, piatta e battuta dal vento. Sulla soglia di un edificio cubico di marmo bianco il guardiano mi saluta in nepalese, mi conosce bene ormai. Davanti a me, un’unica guglia di pietra nuda, alta un centinaio di metri e forse più. Sulla parete impossibile c’è una macchia rossa, la veste di un giovane monaco Bön che si arrampica a mani nude con un secchio di carbone sulle spalle. Lentamente arriva sulla cima che buca il cielo azzurro. È pronto per il salto.

Parlo di topografia onirica perché questi luoghi esistono. Potrei collocarli nel mondo reale, salvo il fatto di essere irraggiungibili. Un altro di questi è una caverna nascosta nel cuore delle forre della Lessinia. Si scende per una stradella asfaltata sulla destra, giù fino all’imboccatura di un sistema di grotte che ospita un qualche culto segreto. In sogno ci torno di continuo, e la suggestione è talmente forte che più di una volta mi sono trovato a cercare dei punti di riferimento su google maps o sulle mappe dell’ISPRA, sempre senza successo.

Che questi mondi esistano davvero, da qualche parte, non lo so. Mi piace pensarlo. Credo che il sogno lucido sia qualcosa di più di un semplice fuoco d’artificio di neuroni che si liberano del sovraccarico accumulato durante il giorno e che controllare il mondo onirico sia un atto quasi demiurgico. Diventiamo Dei all’interno di noi stessi, o forse lo diventiamo in qualche realtà parallela del multiverso, chissà. C’è chi parla di viaggio astrale, chi di esperienze extracorporee, chi di stati ipnagogici. Non sarò certo io a svelare l’arcano a cui fior fiore di filosofi e scienziati ben più arguti di me hanno dedicato pagine e pagine senza riuscire a mettere un punto fermo.

Però si può fare una cosa: continuare a sognare e imparare a viaggiare. Onironauti si diventa, dal momento che tutti possiamo sognare. Ci sono tecniche ed esercizi da fare, sveglie da puntare e ritualità da sviluppare (in senso non religioso, prescrizione, cerimonia, usanza in genere, cit. Treccani), ma si può. Aggiungerò pure che a volte è una bella spada in culo e che può essere faticoso. Io per primo non cerco sempre il sogno lucido, ma vado a periodi, perché è psichicamente estenuante.

Ho trovato, tempo fa, un libretto ben scritto: A Field Guide to Lucid Dreaming. Riuscivo a viaggiare nel sogno anche prima, ma qui ho trovato una guida e un metodo.

Io consiglio a tutti di provare, prima o poi. Con una precisazione e un’avvertenza: il sogno lucido non ha alcuna implicazione spirituale o religiosa, a meno che voi non vogliate dargliela. È un esercizio per tutti, adatto anche ai più atei e razionalisti: il sogno è quanto di più popolare e umano esista.
Quanto all’avvertenza, beh, è semplice: sappiate che non vorrete più smettere.

Arte, arte, arte un cazzo

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Corsi e ricorsi della vita. Mi ritrovo, dopo anni, a ritornare sul concetto di arte.
Una piccola e doverosa premessa: ho studiato conservazione dei beni culturali. Ho lavorato – come schiavo – in un museo. Ho una madre che fa, con un discreto successo, la pittrice. Sono cresciuto in mezzo a libri d’arte. Questo fa di me un esperto d’arte?

No, proprio per nulla. Credo sia più una questione di sensibilità, di strumenti di lettura e di conoscenza di un po’ di storia.

Il punto è, sic et simpliciter, che molti – troppi – di arte non capiscono un cazzo. Tante volte i succitati artisti, quelli che l’arte dovrebbero produrla, sono i meno indicati a comprenderla. Figuriamoci noi, che vagoliamo su internet in cerca di un angolo di tetta e ci entusiasmiamo per i meme di Taffo.

Preambolo chiuso. Dove voglio arrivare?

Qualche anno fa, un tale Christo s’è inventato di piazzare delle passerelle galleggianti arancioni sul lago d’Iseo. Pardon, non passerelle. Installazione di arte contemporanea. Sempre arancioni eh.

Vi ripeto il tutto. Christo. Passerelle arancioni. Camminare sull’acqua. Arte.
Se voglio camminare sulle acque come Cristo su delle passerelle arancioni, basta andare a Venezia quando c’è acqua alta. E non mi sento di chiamarla arte.

Il punto è esattamente questo: in un mondo dove l’apparire spesso conta più della sostanza (e sì, so perfettamente che la frase è trita e ritrita, ma tant’è) l’arte si sovrappone all’atto che genera – in qualche modo – stupore. L’atto creativo diventa marketing dell’emozione spicciola, o meglio: l’emozione spicciola diventa arte.

Tempo fa lessi sul nostro amatissimo Facebook una frase:
Art should disturb the comfortable and comfort the disturbed.
Attenzione perché, su questo banale concetto, c’è una pletora di performer che fanno soldi sul nulla. Per la precisione troviamo molti di coloro che concepiscono l’arte come atto egocentrico, come mezzo per fare clamore, per rendersi interessanti.

È l’elemento fondante di fenomeni da baraccone come Milo Moiré, definita come la depositaria dell’antica arte di depositare uova piene di colore dalla vagina (col suo corpicino perfetto da palestra e le tette rifatte) all’Art Cologne 2014 (nome della performance: PlopEgg#1, la nascita di un dipinto. WOW.)

O presentandosi, sempre nuda e con alcune scritte sul corpo, a una qualche edizione di Art Basel, salvo poi rimanere fregata nel momento in cui  Dorothee Dines, portavoce della fiera, le si è avvicinata spiegandole che non sarebbe potuta entrare: «Dal momento che lei sta svolgendo una performance, non posso lasciarla entrare. Art Basel mette in mostra diversi artisti, rappresentati ciascuno da una galleria. Queste persone hanno dovuto proporsi mesi fa per essere selezionate e partecipare alla fiera. E tutti sono tenuti a pagare una tassa. Per questo motivo, riteniamo che il suo gesto non sia corretto nei confronti degli altri» (citazione presa da InsideArt).

La stessa Milo Moiré che, per lanciare un messaggio in merito al diritto delle donne di non essere toccate senza consenso, si fa toccare le parti intime (protette da una scatola specchiata) per strada.

E qua mi incazzo davvero, perché se c’è un messaggio che merita serietà e attenzione, che non può e non deve essere delegittimato, è proprio il diritto delle donne a sentirsi sicure e mai prede.

Allora parliamo magari di esperimenti sociologici, perché peggio della Moiré nuda che si fa toccare la passera dentro a una scatola specchiata tenuta insieme col nastro isolante – perdio, cerchiamo almeno di nobilitare un poco la cosa, no? – c’era solo la discreta fila di cercopitechi assatanati che non vedevano l’ora di infilare la mano lì dentro.

Qualcosa di un tantino più avvilente della performance del 1974 Rythm 0, in cui la Abramovich rischiò la vita mettendosi completamente nelle mani del pubblico. Con una differenza sostanziale: seppur ritengo che anche questa performance non fosse arte (così come non lo è il mangiare cipolle crude, altra esibizione sulla quale nutro più di qualche dubbio), di sicuro ha avuto il merito di essere un manifesto della bruttezza umana.

E poi ci sono quelle che non hanno nemmeno la dignità di esperimenti sociali, tipo le opere d’arte di Millie Brown, che beve latte colorato (rigorosamente in minigonna, mi dicono, che se non c’è un po’ di passera la cosa non funziona), lo vomita sulle tele e chiama l’atto action painting.

In un video di una sua performance la troviamo con aria assorta, intensa, quasi mistica, guardare i suoi sbrecci su tela. Immagino Pollock rivoltarsi nella tomba.

Pollock, sì. Quello degli schizzi di colore sulla tela. Eh, direte voi, ma come? Pollock schizzava colore sulla tela e la sua era arte, mentre vomitare latte colorato non lo è?

No.

Esiste una cosa chiamata, in linguaggio artistico, capacità di sintesi. Quello di Pollock è parte di un processo che l’ha portato a condensare la sua visione del mondo in una tecnica artistica. Questa vomita sulle tele.
Ve lo ripeto. Vomita sulle tele.

Arriviamo alla mia preferita: Yoko Ono.

Una che, dopo aver distrutto i Beatles, riempie vasetti d’acqua e vi scrive sopra i nomi dei VIPs con una etichettatrice 3M.

No, no, aspettate, ancora meglio: estate 2014, visito il Guggenheim di Bilbao. C’è la personale di Yoko Ono, e dal momento che il biglietto era ormai pagato, tanto valeva dare un’occhiata.

Beh, trovo una mela verde su una struttura in plexiglass . Ora, perdonatemi, non ricordo il nome dell’opera: probabilmente era qualcosa tipo “Mela verde”. Il problema non era la mela in sé, quanto la data di produzione dell’opera: 1966. La mela, ovviamente, era freschissima.

Cazzo, ditemi da che fruttarolo si serve Yoko Ono, perché se la sua mela dopo quasi cinquant’anni è così fresca, non oso pensare quanto le possa durare un cespo di lattuga.
Concludo, prima di diventare antipatico o di trovarmi 4 nichilisti alla Lebowski sotto casa: questa – a mio modesto parere – non è arte. Non come la intendo io, dal mio limitatissimo punto di vista da maestrante della penna, da ex archeologo fallito, da amante dell’arte classica.
Sento un vociare, in sottofondo, ho proferito l’impronunciabile: arte classica.

Evidentemente sono un matusa, un conservatore. Da noioso amante dell’antico non posso capire la grandezza di certe performance. Vi lascio così, con una statuetta di circa 4500 anni fa.

Gente che la modernità non sapeva proprio dove fosse di casa.

Reading Challenge 2021 – 1 trimestre

La lettura è un’amante che pretende tempo e attenzioni. Anche ai lettori più forti (e non mi sto mettendo nel mazzo, parlo di gente tipo mia madre che bene o male ha sempre un libro in mano e piuttosto rimanda tutto il resto, bollette comprese) capita di avere periodi in cui, per necessità o voglia, si legge poco.

disclaimer: segue delirio casuale sulle reading challenge. Se ti interessa solo vedere i libri che ho letto e una brevissima opinione a riguardo salta pure questa parte.

Personalmente parlando, negli ultimi anni ho letto poco, una ventina di libri all’anno. Alcuni finiscono nell’elenco di Goodreads (qua il mio profilo, nel caso vogliate chiedere l’amicizia), altri no, ma più o meno siamo lì.

All’inizio di quest’anno mi sono ripromesso di dedicare un po’ di tempo in più alla lettura e di fissare la reading challenge 2021 a un totale di 50 libri. Uno alla settimana, un obiettivo impegnativo ma non troppo.

È anche un gioco di strategia: quando sei indietro sulla tabella di marcia è bene scegliere libri agili in modo da ritornare in linea. Alla fine di questo trimestre sono già indietro di 4 libri, e di sicuro i prossimi saranno La caduta e lo straniero di Camus. Insomma, prima di affrontare Delitto e Castigo devo andare in pari, altrimenti rischio di restare indietro.

Non c’è nulla di male nel leggere libri brevi. La qualità o l’impegno di un libro non vengono certo definite dalla lunghezza, ma dal contenuto e dallo stile. Certo che se per fare in fretta leggete porcherie come Fabio Volo o Melissa P meritate solo l’inferno (no, non si tratta di snobismo letterario. È solo questione di dare alla spazzatura il giusto peso.)

Taglio corto. Cosa ho letto in questi 3 mesi?

  1. Gli ultimi giorni della nuova Parigi – China Mieville
    Meh. È il primo libro che leggo dell’enfant prodige della letteratura weird e… non l’ho trovato certo “abbagliante”, come l’ha definito il Guardian. Intendiamoci, l’idea è assolutamente strepitosa (i nazisti e resistenza combattono in una Parigi dove le opere surrealiste hanno preso vita e i diavoli dell’inferno camminano per strada), la realizzazione un po’ meno. Tante citazioni e un certo livello di auto-compiacimento. Da qui a dire che sia un brutto libro c’è una distanza siderale, ma personalmente non mi ha folgorato lo stile (l’idea sì, motivo per cui darò a Mieville almeno un’altra chance). Voto: 3/5
  2. Se i gatti scomparissero dal mondo – Genki Kawamura
    Un libro strano. L’ho scelto per due motivi: i gatti (ovviamente) e la mia passione per il realismo magico. Ho amato Murakami (non la sua tendenza a ripetere sempre lo stesso topos) e quando l’ho visto a casa di un’amica me lo sono infilato in tasca borbottando “te lo rubo”. La storia è semplice. Un postino scopre di essere malato terminale di cancro e fa un patto con il diavolo: un giorno di vita in più per ogni oggetto a cui rinunciare, solo che la cosa in questione sparirà per sempre dal mondo. Quando tocca al suo gatto, Cavolo (ma che cazzo di nome è?), il protagonista rompe l’accordo. È un romanzo sulla rinuncia e sui rimpianti, con alcuni momenti davvero toccanti e altri piuttosto superficiali. Il problema principale credo stia nella traduzione dal giapponese all’italiano che in diversi passaggi rende la prosa quasi macchiettistica, così come l’utilizzo di formule ricorrenti che – sono sicuro – in lingua originale rendono assai meglio dell’orribile e reiterato “batuffolo di pelo” per riferirsi al gatto (il cui nome – Cavolo – è parte stessa del problema). Da leggere? Forse, di certo non indispensabile. Voto: 3/5
  3. Tieni presente che. Momenti nella mia vita di scrittore che hanno cambiato tutto – Chuck Palahniuk
    Se non scrivete, potete fare a meno. Ma se scrivete (o siete dei fanatici del buon vecchio Chuck) allora non potete assolutamente perderlo. Assieme a On writing, di Stephen King, è il manuale di scrittura che DOVETE leggere. Tante riflessioni importanti sul “mestiere” di scrivere e tanti consigli pratici, inseriti in una narrazione tagliente e sopra le righe. Di libri sulla scrittura ne ho letti davvero tanti, questo va dritto dritto in cima alla lista dei più importanti. Voto: 5/5
  4. L’inverno del nostro scontento – John Steinbeck
    Se non ricordo male, questo è l’ultimo romanzo scritto da Steinbeck. Il grandissimo, immenso Steinbeck. Qua andavo sul sicuro, sapevo che ne sarei rimasto incantato. L’inverno del nostro scontento è un libro bellissimo, con una prosa meravigliosa e – soprattutto – una storia perfettamente orchestrata sulla fortuna intesa come fortune nel senso più anglosassone del termine, ovvero i successi, i fallimenti e le opportunità che vanno e vengono come la marea. È la storia di una crisi morale e di quanto lontano (e vicino) possano andare le conseguenze dei piccoli gesti quotidiani. P.S. le descrizioni che fa della bellezza adolescenziale della figlia del protagonista, sono da brividi. Alta letteratura. Voto: 5/5 (edicheccazzostiamoaparlà)
  5. Memorie di un giovane medico – Mikhail Bulgakov
    Prima di far incontrare il diavolo alla bella Margherita, Bulgakov era un medico di provincia nella gelida campagna russa. Correva l’anno 1917 e questo povero, giovane e inesperto medico condotto si trova in mezzo all’umanità più varia, alle miserie e alle storie assurde dei contadini locali. È un libro che ho trovato bello e interessante per l’ironia pungente e la profonda umanità. In nove racconti Bulgakov l’ignoranza, le difficoltà, le tragedie della società contadina russa pre-rivoluzione. Davvero bello. Voto: 4/5
  6. La leggenda del Santo bevitore – Joseph Roth
    Una parabola, più che un racconto. Un clochard parigino di origine asburgica riceve da uno straniero una somma di denaro. In un flusso circolare di prendere e avere si racconta la perdizione e l’assoluzione di un uomo probabilmente migliore di tanti altri, di certo onorevole come pochi. Alla fine è un po’ la storia dell’autore, lui stesso esule alcolizzato a Parigi. Interessante. Voto 4/5
  7. Ebrei erranti – Joseph Roth
    Un saggio. Piccolo, molto interessante e – suo malgrado – pesantissimo. È una lucida disamina sulla diaspora culturale e fisica degli ebrei orientali nel mondo, sulle loro difficoltà, sulle meschinità, le grandezze e le speranze di un popolo eletto che è fin troppo umano. Se vi interessa la questione ebraica, Ebrei erranti è un librettino che offre un punto di vista molto particolare. Deve però interessarvi davvero, altrimenti lo mollerete dopo poche pagine. Per me è un 4/5, per altri potrebbe essere molto meno.
  8. Alle porte della Mongolia (alle sorgenti del fiume giallo) – Leonard Clark
    Doppio titolo per un libro pubblicato da Garzanti nel 1960 e che nelle edizioni successive diventa Alle sorgenti del fiume giallo. Partiamo da Leonard Clark: esploratore, avventuriero, spia, impiccione e ammazzasette ammmmericano che ha fatto del vagabondaggio un’arte. È lo stesso dell’eccezionale (e ben più famoso) I fiumi scendevano a oriente. Clark è uno di quei personaggi ombra che in qualche modo ha influenzato il corso della storia, organizzando attività di guerriglia e chissà cos’altro in Cina, Tibet e Mongolia in supporto alla frangia cinese musulmana e anticomunista di Ma BuFang. In questo diario di viaggio, Clark narra della spedizione del 1949 in Mongolia per cercare la mitica vetta dell’Amne Machin che al tempo si vociferava fosse più alta dell’Everest. Alla guida di una carovana di guerriglieri musulmani e tibetani affronta valli, laghi salati, fortilizi e accampamenti, banditi ngolok, predoni, monaci e capi-tribù in cerca delle sorgenti del fiume Giallo e della mitica vetta. All’aspetto più avventuroso si intrecciano considerazioni di tipo tattico e strategico (dopotutto era un colonnello dell’OSS americano) per ostacolare l’avanzamento della rivoluzione comunista cinese nei territori dell’asia centrale.
    Le considerazioni sono due: il quadrante centro asiatico è al centro degli interessi delle potenze mondiali dalla fine dell’800. Ciò che narra Clark è quindi storicamente accurato e perfettamente inseribile nel contesto geopolitico dell’epoca. Il suo resoconto è però tutto fuorché obiettivo e – sospetto – in diversi punti MOOOOOOLTO romanzato. Alcune osservazioni e aspetti culturali proprio non tornano – soprattutto se confrontati con quanto descritto in altri testi risalenti a una ventina d’anni prima (Giuseppe Tucci in primis). Il libro non è facile da leggere, ma è comunque un documento importante e appassionante, da prendere però con le pinze. Voto: 4/5 (perché sono appassionato dell’argomento, altrimenti 3/5).
  9. La sceneggiatura – Syd Field
    ***Attenzione: questo non è la traduzione di Screenplay, bensì dello Screenwriter’s workbook***
    Che dire: un testo tecnico sulla sceneggiatura, scritto bene (a volte un po’ ripetitivo) che ha il valore aggiunto di essere anche una guida per affrontare gli stati d’animo schizofrenici che affliggono gli scrittori di ogni sorta (soprattutto quelli che lo fanno per vivere). Se volete scrivere una sceneggiatura e non sapete come affrontare il lavoro, iniziate da qua. Attenzione però: questo libro spiega il procedimento, non l’aspetto tecnico. Voto: 5/5

Arriviamo alla fine: questo è quanto ho letto ad oggi, 9 aprile. In canna ho altri due libri: un manuale di scrittura e game design e una MERAVIGLIOSA raccolta di racconti di Marquez, La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata. È questa la naturale estensione di Cent’anni di solitudine (un capolavoro assoluto). Ma su questi due ci torniamo appena avrò scritto quel maledetto articolo sul realismo magico.

Se sarò bravo, a fine aprile ritornerò in pari (con un totale di 16 libri). Prossimo aggiornamento comunque a inizio luglio.

À bientôt, j’espère

Un po’ più onesto, ancora un po’!

Nella Masterclass di Storytelling di Neil Gaiman c’è un esercizio da far venire i capelli bianchi.

Per far pratica con l’onestà nella vostra scrittura scegliete uno dei seguenti momenti e scrivete qualche paragrafo a riguardo.

* un momento di profondo imbarazzo

* qualcosa di cui vi siete pentiti

* il momento più triste della vostra vita

* un segreto che non vorreste rivelare a nessuno

Mentre scrivete fate attenzione al vostro registro interno, in particolare a ciò che vi mette a disagio. Cercate di essere “un po’ più onesti di quanto non vorreste essere”.
Ricordate che essere coraggiosi non significa non aver paura. Vuol dire agire comunque.
Adesso leggete ciò che avete scritto a qualcuno di cui vi fidate. Fate attenzione a come vi esprimete e alle sensazioni fisiche che provate. Analizzate di cosa avete paura, quale giudizio temete e scrivetelo.

Esatto, è roba da incubo. Tutto con uno scopo: esercitare l’onesta nella scrittura, quella cosetta che permette di digerire la verità e trasformarla in verosimiglianza.
Questo strumentino di tortura mi ricorda una lezione di Raul Montanari – era il lontano 17/10/2015 – sulle leggi della narrativa. La prima, secondo Raul, è che il racconto è la scatola dove narrare la realtà della vita. Cito la trascrizione che ho trovato su un quaderno di appunti:

La narrativa funziona quando è verosimile nei dettagli e nella coerenza interna. Quando dobbiamo scegliere tra verità e verosimiglianza è opportuno scegliere la seconda, perché rientra nell’ordinamento del mondo del lettore. Se la verità è fondamentale per la narrazione, usiamola. Altrimenti la verosimiglianza è sicuramente più opportuna. La domanda da farsi è la seguente: è necessario che il lettore conosca l’esatta verità? Se la risposta è no, allora la verosimiglianza è più che adatta.

Un esempio è Arancia Meccanica di Burgess. La scena dello stupro si ispira a un fatto reale: la moglie dell’autore è stata picchiata e violentata da quattro soldati americani nel 1942. Burgess ha preso un evento così traumatico e doloroso e l’ha utilizzato come base per la scena descritta nel libro. Ai lettori, infatti, non serviva la verità, ma era necessaria la verosimiglianza.

E l’onestà dell’esercizio, allora? Beh, quella è tutta pratica per fare i conti con noi stessi e riuscire a elaborare la verità e poterla utilizzare in modo verosimile in ciò che scriviamo.

Ok, fin qui tutto bene. Gli scrittori – professionisti o amatori, bravi o scarsi, umili o pieni di sé – hanno tendenze sadomasochistiche, mi sembra evidente. Si assumono il ruolo particolare di narratori e per farlo si sottopongono a tutta una serie di torture autoinflitte. Ma lo stesso esercizio di cui sopra è davvero utile anche per chi non ha alcuna velleità scrittoria. Aiuta a fare i conti con i propri dolori e a prendere le giuste distanze dai momenti più bassi della vita.

In Doctor Sleep, di Stephen King, il protagonista Danny Torrance (sì, quel Torrance; Doctor Sleep è il seguito di Shining) è adulto e ha alle spalle una storia di alcol. Ha un segreto che lo angoscia e che è presente come una macchia scura per tutto il libro. Quando riesce a liberarsene durante una seduta di auto aiuto, si rende conto che il segreto è atroce per lui, ma per gli altri è solo un’altra triste storia come tante.

Il messaggio per il lettore (e col quale il lettore si relaziona) è semplice: vivi i tuoi demoni con più leggerezza, perché non sei solo e non sono i peggiori sulla piazza. La verosimiglianza della scena rende fruibile il contenuto che si aggancia al vissuto di chiunque, perché tutti abbiamo qualche scheletro nell’armadio.
Questa verosimiglianza che King riesce a mettere in campo deriva dalla verità, ovvero dalla sua esperienza diretta di alcolista così ben descritta nel saggio On writing: autobiografia di un mestiere.

Raul Montanari ha ragione (e con lui Gaiman, King e tutti gli altri. Cazzo, lo dice anche Aristotele!): il rapporto onestà/verità/verosimiglianza è LA BASE della narrazione. Senza ci sono solo parole vuote, magari belle ma prive di appeal.

Vi lascio così, con una citazione sulla poetica aristotelica trovata in giro sulla rete.

Ma che cosa è la verosimiglianza? Secondo Aristotele è un qualcosa di intermedio fra la verità e la falsità, cioè qualcosa che forse è accaduto e forse no, ma sarebbe potuto accadere e che potrebbe accadere; non importa insomma che una vicenda sia vera, importa che sia verosimile.

(Poi su aletheia (verità) ed eikós (possibile, verosimile) ci torniamo, va’, così parliamo un po’ di realismo magico.)

Ricomincio da qui

Ci sono momenti in cui bisogna avere il coraggio di guardarsi allo specchio e ammettere che qualcosa non va. Che la vita ha preso una piega che non avresti desiderato e che la responsabilità è tutta tua.

Troppo facile dare la colpa agli altri. Al lavoro, alla società, ai genitori, ai vaccini, a quella stronza della tua compagna che alla festa delle medie si è rifiutata di baciarti al gioco della bottiglia.

Non che tutto questo non influisca, ma la decisione, alla fine della giornata, è nostra: se nonostante tutto credere nella follia del cambiamento o restare nella zona di comfort e accontentarsi di ciò che passa il convento. Ignavia e accidia, questi sì che sono peccati capitali. Altro che lussuria o gola. Siamo abituati a vendere la nostra anima per una comoda, piatta, illusoria e fottuta zona di comfort.

Sono anni – ANNI – che mi lamento del mio lavoro, del copywriting, di non riuscire a trovare le energie da dedicare alla scrittura, a un blog, a un progetto personale che non sia conoscere le pornostar del mainstream americano per dettagli anatomici. Il punto è che se alle cose non ci credi in prima persona, semplicemente non succedono. Non si formano nemmeno le condizioni perché avvengano se non in quel liquame di aspettative irrisolte che sono i sogni a occhi semichiusi delle sei del mattino.

Ora cerchiamo di concretizzare un poco: perché vi svango la ciolla con questo delirio esistenziale? Un nuovo modo per lamentarsi e non agire? Una sorta di malvagia meta-neghittosità?

Nein.

Questo giro ci ho creduto e ricomincio da qui.

Ho finito la prima stesura del mio romanzo dal titolo assolutamente provvisiorio di Elettra e i vecchi ragni. Un progetto nato da una promessa fatta quindici anni fa a un’amica, e che sotto pressione di quella pover’anima di Ambra – amica carissima, editor e avvocato delle cause forse non così perse – ho ripreso in mano esattamente un anno fa.

Dodici mesi di ripensamenti, interruzioni, dubbi, semi abbandoni. Praticamente una storia adolescenziale, con Ambra che con garbo e intelligenza soffiava sulla fiamma per tenerla accesa. Mi ci ha fatto credere davvero e alla fine ci sono riuscito.

Quello che è nato come un tentativo si è trasformato in una reazione a catena che mi ha portato, non senza crisi esistenziali, a capire che forse a essere sbagliate erano le strategie.

Il non-crederci. Eccola lì la scintilla magica. Sembra una frase da pessimo libro di auto-aiuto, ma è vero. È una realtà semplicissima, sotto gli occhi di tutti eppure altrettanto difficile da coscientizzare. Se non ci credi tu, nessuno lo farà per te.

Problema risolto?

Col cazzo, abbiamo appena iniziato. Non è un interruttore acceso/spento, né l’illuminazione di Jake Blues. È qualcosa che in un attimo ti sfugge dalle mani e ti ritrovi di nuovo nello stesso pantano di sempre.

In una botta sola cerco di liberarmi di un lavoro ormai tossico, di reinventarmi lavorativamente e di mettere la mia scrittura al servizio di me stesso e non dei quattrini degli altri. E magari di camparci senza dover per forza scrivere centinaia di testi commerciali, articoli, social-post che aggiungono solo letame a una situazione che puzza di merda del suo.

Illuso! urla il coro di detrattori. Illuso! urla la voce nella mia testa. Illuso! urla chi ha paura del cambiamento.

Illuso! urlavo allo specchio.

Arianna mi ha comprato dei tappi per le orecchie e Ambra mi ha messo in mano un sasso per rompere lo specchio.

Magari sbaglio tutto di nuovo, intanto ricomincio da qui.

Schegge di retorica mediatica (come fottervi con la vostra stessa testa)

2 ottobre 2014. Al tempo lavoravo ancora in rassegna stampa e cosa succede? Come tutte le mattine apro La Stampa e mi faccio una bella sghignazzata. Considerate la situazione: pieno allarme ebola, epidemia dell’anno e grave emergenza umanitaria. Allora la situazione sembrava gravissima, tutti si cagavano sotto. Adesso c’è il COVID che ci usa come carta da culo da un anno e mezzo e l’ebola non se lo ricorda più nessuno.

Tanto per capirsi, in quegli anni tendevo un tantino all’ipocondria. Non avevo ancora scoperto il Nepal, grande catarsi che ha avuto anche il merito di lenire le mie paure. Ancora oggi il problema è che non mi piacciono le situazioni fuori controllo tranne quando riesco a controllarle (sembra un affermazione piuttosto ossimorica, vi assicuro che non lo è) eppure cerco di mantenere una visione un poco più critica.

Quindi me la ridevo nonostante l’ipocondria, e certo non per cinismo. Parliamo di un’epidemia che rischiava di fare un vero casino (vi ricorda qualcosa?), la serietà avrebbe dovuto essere d’obbligo.

Insomma, cosa c’entra il mio divertimento con il fatto che a Dallas fosse stato rilevato un caso di ebola e che 18 persone fossero finite in quarantena?

Semplice: il tono, il mood di tutto l’articolo, era una bella polpettina avvelenata di retorica.

Io con le parole ci lavoro. Faccio il copywriter da anni e per altrettanti ho lavorato in rassegna stampa, attività che presuppone leggere decine e decine di articoli al giorno. Parole, parole, parole. E quelle che potete leggere nell’articolo (o meglio il modo nel quale sono utilizzate per costruite le frasi) sono usate proditoriamente al fine di creare allarme.

Già in passato mi ero occupato di retorica e giornalismo, ma questo articolo è perfetto per rincarare la dose e aprire gli occhi di chi legge i giornali, magari solo saltuariamente, e non si rende conto che come si scrive qualcosa è addirittura più importante di cosa si scrive.

Analizziamo l’articolo:
Titolo: Ebola, il malato americano ha viaggiato anche in Europa

Sottotitolo: Caccia a chi è entrato in contatto con l’infettato. Ci sono dei bambini

Ora, già questo è sufficiente per capire il tenore, ma tanto per rendere chiare le cose: il titolo contiene tutto ciò che serve per attirare l’attenzione. Ebola (con la E maiuscola, attenzione!), americano, Europa rappresentano il triangolo semantico perfetto: focalizzano l’attenzione del lettore sul fatto che l’ebola è arrivato in america, e l’ha fatto passando per l’Europa. Poco importa il come o le tempistiche o qualsiasi altro ragionamento razionale si possa e debba fare. Il titolo deve suscitare un’emozione tanto forte da indurre il lettore a proseguire.

Il sottotitolo rincara la dose (siamo già nel retorico spinto, ma a questo punto il lettore meno accorto ha già un piede nel cosiddetto imbuto).

Le parole fondamentali qua sono altre: caccia, infettato, bambini.

Iniziate a capire come funziona il giochetto eh? È tutto lì, nero su bianco.

Quello che viene dopo è puro cincischiare con le paure della gente: la frase d’apertura è:
“L’ordine è quello di evitare il panico, dopo il primo caso di Ebola diagnosticato negli Stati Uniti, ma ogni ora che passa aggiunge particolari preoccupanti a questa storia”

E voi, a questo punto, ci siete dentro con tutte le scarpe. L’autore, Paolo Mastrolilli, non è certo un giornalista di primo pelo, anzi: è una delle vecchie volpi de La Stampa. Sa perfettamente cosa vuole e come ottenerlo utilizzando uno dei mezzi di persuasione più potenti che esistano: la retorica.

Che, citando wikipedia, altro non è che un metalinguaggio il cui scopo finale è la persuasione.

Ed è lo stesso metalinguaggio che permette a un ADV di convertire, a un post di ricevere interazioni e condivisioni e nella vita spiccia di convincere la vostra ragazza che andare in vacanza con gli amici in Croazia a sfondarsi di alcool è un’ottima idea. Il giornalismo vive di retorica, ma questa è presente in moltissimi aspetti della vita quotidiana. Ormai la usano anche i complottari (soprattutto loro!)

Come ho già detto da qualche altra parte, ciò che fa la differenza è la consapevolezza, riuscire a discernere tra ciò che è scritto e i metasignificati infusi ad arte per ottenere una determinata reazione. La consapevolezza si costruisce, leggendo e informandosi, addentrandosi nella notizia, comparando diverse fonti. Un altro esempio è presente in quest’articolo: nella chiusura (le ultime due frasi, solitamente destinate a consolidare un’opinione nel lettore attraverso un’affermazione dal valore empatico) troviamo un richiamo a un’evento che una semplice ricerca su internet può ridurre notevolmente nei contenuti e nel significato. Riporto:

Nel frattempo, a Rhode Island, è morto un bambino che aveva contratto un altro virus misterioso chiamato EV-D68. Non è legato all’Ebola, ma si aggiunge alla paura del contagio.

Ci siamo, di nuovo. Bambino, contagio, l’utilizzo della parola ebola con la E maiuscola. Il tutto converge per rafforzare nel lettore il senso di catastrofe imminente. Salvo poi informarsi, fare una ricerchina su internet e scoprire che il virus EV-D68 non è misterioso, è semplicemente un enterovirus ben conosciuto dal CDC americano. Ma al lettore poco curioso questo importa poco – la conversione è realizzata e il sentimento di allarme è ben consolidato.

E la magia è compiuta.

Ho fatto un giro molto, molto largo. Volevo arrivare agli eventi di questi ultimi giorni, nel secondo anno della pandemia, perché dalle parti di Napoli (ma a dire il vero in tutta Italia) ululano contro i vaccini antiCOVID per un’insegnante morta di infarto intestinale causato da un’ernia, mentre sui giornali imperversano false correlazioni costruite ad arte.

Intanto i gruppi editoriali fanno audience, i no-vax raccolgono proseliti e sale la diffidenza.

Nulla di nuovo sotto il sole, ma sarebbe ora di finirla con le stronzate.

La potenza di un’immagine

Lo so, sono in ritardo. Lo sono sempre. In questo caso di qualche anno.

Quando ho scritto questo articolo, in realtà avevo in programma di rompervi le uova con una recensione e un editoriale che parlasse di copywriting e invece ero a Londra – città alla quale mi sento di appartenere e nella quale con ogni probabilità non vivrò mai – a uccidermi di birra e British Museum.

Ho visitato il British ormai una decina di volte. Conosco la singola posizione dei reperti, e tutte le volte che mi trovo di fronte agli ortostati assiri della caccia al leone vengo colto dalla commozione. È più forte di me, è come se provassi lo stesso dolore di quei felini trafitti dalle frecce del re. Per chi non sapesse a cosa mi riferisco ecco un’immagine.

Il dolore è reale. Lo puoi toccare (ecco no, magari toccare no. C’è sempre una guardia dietro l’angolo a proteggere le opere d’arte dai fanatici morbosi come me e dai pennarelli dei ragazzini), quasi puoi annusare l’odore metallico del sangue, il rumore del ruggito che si spegne in un gorgoglio. Quelle zampe abbandonate e incapaci di risollevarsi sono sofferenza pura.

Magari un giorno metto in piedi una gallery con altre foto di questi splendidi bassorilievi che ornavano il palazzo di Ashurbanipal a Ninive.

Ciò che voglio puntualizzare è il valore evocativo di un’immagine (e vero motivo alla base di questo post) e come possiamo utilizzarlo per la nostra scrittura.

La scrittura è meravigliosa anche per il suo potere di creare veri e propri affreschi di quanto leggiamo, con il solo aiuto della nostra immaginazione o εἰκασία, ovvero la capacità di rappresentarsi cose non presenti in atto alla sensazione. Come fruitori di letteratura, il viaggio finisce qui: leggiamo e immaginiamo. Ma come scrittori abbiamo la possibilità di utilizzare il processo contrario, cosa forse non scontatissima: le immagini possono aiutarci a stimolare la nostra fantasia, a focalizzare, a descrivere un ambiente, una scena, un personaggio.

nulla è lasciato al caso

Faccio uso di questa tecnica da un po’, e lo spunto mi è giunto da mia madre (illustratrice e arpia, ma questo è un giudizio del tutto filiale) qualche anno fa, quando le mostrai una delle tavole di BlackSad (una delle mie graphic novel preferite, della quale ho scritto sulla fu Rivista Fralerighe). Nel momento stesso in cui le ho mostrato l’illustrazione mi ha detto “c’è uno studio dietro, quasi di sicuro con delle foto. Nulla è lasciato al caso”. Mia madre dice un sacco di cose, ma quando parla di illustrazione mi fido ciecamente. E in effetti ha senso: perché un illustratore non dovrebbe ispirarsi alla realtà? E perché non dovrebbe farlo uno scrittore?

Com’è ovvio non mi sono inventato nulla. Ho scoperto più tardi che, come me, moltissimi altri scribacchini traggono ispirazione nelle immagini. Io ho trovato un validissimo alleato in Pinterest, che mi permette di cercare, raccogliere e catalogare immagini che poi utilizzo senza ritegno per ispirarmi. A volte (come nel caso della board Parigi 1880) servono per calarmi in un’ambiente che non conosco, altre ancora da sole racchiudono una forza simbolica da mettere in atto il processo creativo.

È questo, ad esempio, il caso di un’immagine bellissima che rappresenta il gatto di Alien, Mr. Jones con una larva di xenomorfo in bocca. Un gatto su un’astronave che – nonostante la fantascienza che lo circonda – si comporta esattamente secondo la sua natura felina. E io, che per la testa ho da un po’ di tempo in progetto una serie di racconti di fantascienza nei quali gli animali viaggiano per le stelle a fianco dell’uomo, ho provato il rimescolamento e il prurito alle mani che sempre mi coglie quando ho l’urgenza di partorire una storia.

Le immagini sono importanti. La vista è il nostro senso più forte, e impatta sulla nostra percezione della realtà. Utilizzare l’arte, la fotografia e il disegno per focalizzare la nostra creatività è più che lecito, e forse addirittura fondamentale per dare vita a storie più vivide e vibranti di colore e dettagli.

Capita, a volte, che la penna si secchi, che l’inchiostro fatichi a uscire, che l’immaginazione balbetti di fronte a un intimidatorio foglio bianco. Fate un esperimento: trovate una foto, un’illustrazione, un quadro la cui vista vi faccia vibrare, immaginate una storia e scrivetela.

Scoprirete che è assai più facile di quanto pensiate.