Sotto cieli stranieri
Ieri sera (o stamattina, visto che era passata la mezzanotte da un po’), ho finito Yellow Birds di Kevin Powers e – come al solito – ho subito cominciato un nuovo libro.
È un piccolo rito per “mantenere il ritmo” e ricordarmi che in qualche modo c’è sempre tempo per leggere. Dopotutto è facile, non devo fare altro che pescare dall’infinita pila di libri che tengo sul comodino. A essere difficile è la scelta, visto che non riesco mai a decidere cosa leggere dopo.
Questo giro è stato un po’ più facile del previsto. La copertina dorata di A Lhasa e oltre brillava in mezzo al casino. Fa parte del cofanetto dei diari di viaggio di Giuseppe Tucci, che poi di fondo è l’Indiana Jones de noantri. Archeologo, esploratore, gran paraculo (tanto da riuscire a entrare a Lhasa nel 1948 in quanto iniziato buddista, salvo poi riconvertirsi al cattolicesimo in punto di morte), massone, professore, inviato (cito wikipedia) come membro di una delegazione diplomatica e militare che doveva trattare con i vertici giapponesi l’adesione dell’Italia al Patto Anticomintern, l’alleanza già firmata tra il paese orientale e la Germania nazista in funzione anti-sovietica.
Insomma, apparentemente il nostro Tucci era un personaggio con qualche ombra, tanto che nel 2010 – a seguito di una strada a lui intitolata a Roma – vi fu una levata di scudi da parte della comunità ebraica a causa di una sua ipotetica adesione al Manifesto della Razza del 1938.
Apro una piccola parentesi (quasi un disclaimer): non mi cagate il cazzo per quello che sto per dire, io per primo ho parenti ebrei (il fratello di mio nonno è stato in campo) e amici che vivono a Gerusalemme.
Fatta questa precisazione, ritengo che pensare a Tucci come a un razzista – o anche solo come fascista, pur essendo famoso come l’esploratore del Duce – sia un’idiozia bella e buona. Al di là del fatto che non esiste alcuna firma di Tucci in calce al manifesto, basta leggere i resoconti dei suoi viaggi per rendersi conto di cosa davvero pensasse Tucci dell’uomo e delle culture, tant’è che nel 1937 (prima della guerra) e nel 1947 (tre anni dopo essere epurato dall’Università perché ritenuto compromesso con il regime, salvo essere prosciolto nel 1946 e addirittura messo alla guida dell’IsMEO nel 1947) venne accompagnato in Tibet da Fosco Maraini, antropologo, etnografo, fotografo e scalatore che, pur di non aderire alla Repubblica di Salò, si fa tre anni di campo di prigionia a Nagoya, in Giappone, dove era professore e ricercatore associato alle università di Kyoto e Hokkaido.
Ora, ditemi: nei panni di Maraini (di cui vi consiglio di leggere Case, Amori, Universi e Segreto Tibet), dopo esservi puppati tre anni di campo di prigionia con moglie e figlie piccole, seguireste un fascista in una spedizione in Tibet? A me qualche dubbio viene.
Tucci era molte cose, ma non una cattiva persona: di sicuro ha fatto delle scelte opinabili, ma sempre con l’obiettivo di rincorrere la conoscenza, di esplorare nuovi orizzonti, di sollevare il velo sulla storia delle culture indo-tibetane.
Per concludere non mi resta che ringraziare non solo le Autorità tibetane che furono con me larghe di aiuti e comprensione, ma tutti i tibetani che ho incontrato durante i sette mesi passati nel loro paese: perché tutti hanno gareggiato in gentilezze da riempirmi l’animo di mestizia, quando sul calar dell’autunno ho dovuto riprendere la via del ritorno per tornare in un mondo, che per errore di prospettiva, chiamiamo civile.
Giuseppe Tucci, prefazione di A Lhasa e oltre, diario di viaggio della spedizione in Tibet del 1947
Perché tutto questo pippone su Tucci?
Semplice. Perché lo ammiro, e ammiro tutti quegli uomini che hanno fatto la storia dell’esplorazione del mondo. Ieri sera, leggendo la prefazione, ho realizzato che è solo l’ultimo di una lunga fila di testi che ho letto sul Tibet, sull’India e sul Nepal e che sì, posso definirmi un malato di Asia.
È nato tutto con il piuttosto opinabile ma di certo suggestivo “Il terzo occhio” di Lobsang Rampa, che altro non era che un idraulico del Devon convinto di essere la reincarnazione di un lama tibetano. Il libro è un’evidente opera di fantasia (non spoilero nulla) ma è talmente affascinante da essere indicato da molti tibetologi e orientalisti come uno dei motivi per cui hanno intrapreso gli studi orientali.
“For some it was a fascination with the world Rampa described that had led them to become professional scholars of Tibet.”
Dr. Donald Sewell Lopez Jr., professore emerito in Studi Tibetani dell’università del Michigan, dipartimento di lingue e culture asiatiche.
Avevo sì e no diciott’anni e avevo appena chiuso un periodo monomaniacale di letteratura yddish. Poi trovo in casa Vita di Milarepa (biografia del poeta, mago e mistico della scuola Kagyu), e poi ancora i libri di Alexandra David Neel (Il lama delle cinque saggezze – fuori pubblicazione da un po’ – e Viaggio di una parigina a Lhasa) e infine il già citato Segreto Tibet di Fosco Maraini.
C’ero già dentro con tutte le scarpe, e da allora non è cambiato assolutamente nulla, perché a questi si sono aggiunti i libri di Tucci, di Hopkirk (su cui scriverò un articolo separato) e di tanti altri ancora, senza che mi sia mai riuscito di placare questa sete di Asia che mi ha portato (finora) tre volte a spasso per il Nepal. Ma ancora manca l’India (per bene, intendo, ci sono passato di sfuggita un paio di volte), il Tibet, la Mongolia, tutta la dannatissima via della Seta e potrei andare avanti un altro po’.
E mi chiedo se in qualche modo non fossi destinato a quest’amore, perché sono cresciuto sotto lo sguardo di due maschere Bhairava che mio padre portò con sé dal Nepal, nel 1982.
Purtroppo non rimangono più terre ignote da esplorare, e le scritte hic sunt leones sono state sostituite dai satelliti che arrivano a contare i peli del culo degli stambecchi himalayani o delle antilopi che corrono nella steppa.
Il pensiero che guida la spedizione di Clark nel 1949 (dai, forse c’è una montagna più alta dell’Everest, andiamo a rompere i coglioni agli Ngolok tibetani e già che ci siamo a fare un po’ di spionaggio) è oggi impensabile. Tutto è scoperto, a noi non resta che seguire le orme degli esploratori nelle loro pagine.
E, non appena sarà possibile, prendere un volo e andare di nuovo a dormire sotto cieli stranieri.
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