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L’antica arte del cinghiale

Una mia amica, pochi giorni fa, mi ha detto: “Guarda che il tuo blog era seguito proprio per il sarcasmo e gli strali che lanciavi”. Non sia mai detto che non ascolto la saggia voce di Ambra. Ho riesumato questo articolo solo per voi.

 

Antica perché di illustri cinghiali è piena la storia e io sono solo una setola sul culo del grande verro cosmico. Di quelli letterari poi, sono piene le pagine.

Condividi anche tu un Hank sbronzo con il suo gatto.

Fiumi di inchiostro per firmare una dichiarazione d’intenti nei confronti delle donne e dell’abuso del proprio corpo, come ben insegna il buon vecchio Bukowski.

Nel mio caso, trangugiare improbabili quantità d’alcol e lanciarmi in improbabili dissertazioni sul sesso e sull’esistenza ha forse a che fare con l’essere veneto e con un mal di schiena che ogni poco si presenta alla mia porta come una ex-moglie sfaccendata in cerca di alimenti.

Ci siamo divertiti, io e la mia schiena, ma ora apre le gambe solo per divertirsi alle mie spalle. LETTERALMENTE.

Dico questo da sdraiato sotto una pineta in Grecia, fatto di valium e cortisone per tenere a bada il dolore, mentre una delle ragazze della piazzola a fianco è piegata a novanta gradi per raccogliere qualcosa da terra.

Il dubbio che non ci fosse altro motivo per farlo se non per mostrarmi le terga come una gatta in calore, c’è.

Mi perdo qualche minuto – forse qualcosa di più – a fissare questo monumento al culo.

Che siano le benzodiazepine o solo una fervida immaginazione poco importa, vengo catapultato in una delle mie fantasie preferite, quella dove immagino animali al posto delle persone.

Sedute sull’autobus, in fila alla cassa, al supermercato. Sul vialetto passano tre cerbiattine, una specie di bue si gira a guardarle interessato. Piccoli lemuri fastidiosi su biciclettine minuscole – non più di sei anni umani – si aggirano in gruppo, pronte a lanciare la loro cacca addosso alle persone, sicuri che i caratteri neotenici possano garantire loro una certa incolumità. In spiaggia poi è la fiera della biodiversità, tra ratti, cani, manguste, uccellacci e forme di vita più o meno evolute.

Tempo fa – molto tempo fa – dividevo il mondo in predati e predatori e immaginavo le persone come cerbiatti, cervi e antilopi aggirarsi in mezzo a lupi, leoni e altre fiere.

Una delusione tipicamente adolescenziale, spinta dalla necessità di ridurre la realtà a qualcosa di più gestibile, in un manicheismo privo di spazio per qualsiasi ombra o sfumatura di grigio. Solo nero e bianco, luce o buio.

Il tempo ha preso a calci me e la mia integrità, mi ha lavorato ai fianchi come un celerino ammorbidirebbe una zecca da centro sociale a colpi di manganello, giusto per rendere la carne un po’ più tenera e frolla, e mi ha fatto capire una cosa: l’intuizione sull’animalità, sulla presenza di uno spirito guida per ognuno di noi, era corretta nella sua essenza, ma andava rivista. Profondamente.

Non si tratta di una cosa da fricchettoni con i capelli lunghi. L’identificazione con qualcosa che incarni le caratteristiche che riteniamo di possedere è qualcosa di fin troppo umano.

È alla base della pletora di tatuaggi che rappresentano scorpioni, draghi, leoni, falchi, lupi e via dicendo, e questo solo per citare la parte maschile, altrimenti dovremmo aggiungere delfini, fenici, unicorni e fate, in un caravanserraglio di desideri inespressi e tentativi più o meno riusciti di erotizzazione o sensualizzazione, buttandola in culo a Lombroso che – più o meno un secolo e mezzo fa, ne L’uomo delinquente, Milano, Hoepli, 1876 – perdeva tempo a classificare non senza una certa ossessione i tatuaggi di centinaia di marinai, soldati e puttane (tutta gente più interessante della maranza modaiola di oggi) e a classificare ben otto motivi per cui tatuarsi.

Mai nessuno che decida di tatuarsi una cazzo di pantegana o una zanzara. O una cozza. Già, perché quelle caratteristiche che tanto piacciono ai più sono impersonate da pochi, mentre molte sono le persone che dovrebbero riconoscersi in un animale guida scelto tra le forme di vita più vili.

Conosco persone il cui spirito totemico potrebbe essere tuttalpiù un parassita protozoo, per non parlare di tutti coloro che dovrebbero essere derubricati – tanto per citare il sergente Hartman – a pezzi informi di materia organica anfibia comunemente detta “merda”.

Il teatrino di solito è il seguente:

Va là, che bel tatuaggio. Un lupo che ringhia e ulula alla luna. Immagino ti rappresenti. Suppongo ti piaccia Hesse.

Si intuisce un piccolo cortocircuito dietro agli occhi porcini del povero malcapitato, impegnato a decifrare un sarcasmo che non comprende a pieno. Il dilemma è risolto in fretta con una risposta caparbia.

Eh sì, risponde, perché sono uno spirito libero, viaggio da solo fino a che non troverò la mia compagna. Intanto mi diverto.

Nella mia testa si compone l’immagine di un parassita intestinale, cresciuto dentro a un maiale e tutto impegnato ad ammorbare le funzioni intestinali altrui, altro che lupo.

Vorrei dirgli Fai cagare! giusto per rimanere in tema viscere, ma lascio perdere perché non ho davvero bisogno di un’altra querela.

Dovremmo trovare una misura più ragionevole per l’ego. Il punto è che tutti vorremmo essere qualcosa d’altro, di più nobile e bello. Più forti, più coraggiosi, più affascinanti. Più NON NOI.

Darò il buon esempio. Fanculo a gatti e compagnia cantante, il mio animale guida è il cinghiale. Di quelli italiani, piccoli e rompicoglioni, buoni solo a fare danno. Grufola, il cinghiale, rovista tra le foglie e rovina il raccolto del povero contadino perché a lui non frega un cazzo di niente che non sia mangiare, accoppiarsi e rotolare nel fango. E non è questa la logica della vita? Lo è, almeno fino a quando non farà incazzare il contadino sbagliato. E allora, nonostante la sua natura scorretta e fastidiosa, si trasformerà come quella maiala di Cenerentola in un meraviglioso salame norcino.

Qual è il senso di vivere un’idea che non ti appartiene, inseguita con disperazione, fino alla simulazione? Quanti ne conosco di persone che non sono chi dicono di essere? E di me, soprattutto, si potrebbe dire lo stesso. Perché siamo codardi, vigliacchi, impostori. L’intero genere umano lo è.

In vino veritas, dicevano i latini, e non perché le persone dicano la verità quando sono piene di alcol come ciliegie sotto spirito, ma perché finalmente mostrano ciò che sono, abbandonano la maschera e tornano alla loro forma base. Mai credere in un astemio per scelta.

Ha sicuramente qualcosa da nascondere.

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